di Alice Corradini
“Leggere la follia”, questo è il nome di un progetto della nostra scuola, caratterizzante l’indirizzo di Scienze Umane, che comprende lo studio della storia dell’Istituto San Lazzaro e delle cartelle cliniche di alcuni pazienti che vi hanno soggiornato.
Il progetto si è aperto con la narrazione della storia del manicomio e della colonia-scuola Marro (illustrata attraverso le vite di alcuni bambini), travagliata tanto quanto quella dei pazienti.
Il San Lazzaro venne aperto nel XII secolo come ospitalizio per i lebbrosi, nel ‘700 verrà tramutato in una struttura che raccoglie i mentecatti e solo nel 1821, per volontà del duca di Modena, diviene ufficialmente il manicomio degli Stati estensi. Nel corso del tempo avrà diversi direttori, con approcci altrettanto differenti, che porteranno alti e bassi alla struttura; ricordiamo Antonio Galloni, poiché sotto di lui il manicomio viene ampliato, la vita dei pazienti migliora e acquista la fama per cui oggi lo ricordiamo. Un altro evento importante è la creazione della colonia-scuola Marro nel 1921. Fino al 1970 quando Franco Basaglia si fece promotore di una legge che imponeva la chiusura dei manicomi e la loro sostituzione con strutture specifiche; la legge venne approvata del 1978, ma sappiamo che l’ultima paziente del San Lazzaro uscì solo nel 1997.
L’attività svolta durante la seconda parte del progetto, guidata dal personale della struttura, mirava a farci fare “esperienza diretta” coi pazienti, andando ad analizzare personalmente le loro cartelle, così da stimolare dubbi e quesiti sull’argomento, da porre in un secondo momento alla psichiatria Fiorenza Pattacini. Le cartelle erano state divise in categorie: viaggiatori, donne, rapporti familiari, bambini e militari. Ogni gruppo ha poi scelto una categoria di cui occuparsi; il mio gruppo ha trattato del tema dei bambini.
Analizzare le tre cartelle messe a disposizione ci ha dato modo di entrare nella mentalità del tempo e capire cosa era ritenuto importante per fare una diagnosi, in confronto ai tempi moderni.
Un altro elemento che abbiamo sottolineato è stato il ruolo di genitori e tutori nella vita dei bambini; infatti, molto spesso la permanenza in manicomio non era dovuta a problemi del singolo, quanto all’incapacità dei genitori di prendersi cura di lui. Ad oggi si agirebbe sicuramente in modo diverso, chiedendo l’intervento degli assistenti sociali, in mancanza di un possibile tutore. Un dettaglio interessante della storia dei bambini analizzata è che a prendere in custodia il secondo bambino (per ordine cronologico), Alfredo, è stato il primo bambino, Edmondo. Tra tutte le potenziali famiglie che potevano ospitarlo (più abbienti e “normali”), l’unico a prendersi carico di Alfredo e ad aver mostrato più umanità, è stato un ex paziente, ormai uomo, che aveva passato il suo stesso percorso.
Il comune denominatore dei soggetti analizzati dal mio gruppo e di quelli degli altri, è che si trattava di persone ritenute elementi “scomodi” per la società: erano pochi a volerle veramente curare e aiutare, avendo paura del diverso, chiunque andasse leggermente fuori dagli schemi era destinato al manicomio.
Con la dottoressa Pattacini abbiamo discusso particolarmente della divisione tra disturbi neurologici e psichiatrici, una distinzione che avverrà progressivamente nel corso del Novecento e anche delle cause di una malattia.
La teoria più supportata ad oggi è quella biopsicosociale, secondo cui la malattia non ha una singola causa, ma molteplici: la predisposizione genetica, la condizione psicologia e la cultura/società in cui è immersa una persona. Inoltre molte malattie restano latenti fino a che non avviene un evento scatenante; in passato uno molto comune era l’esperienza da militare e ad oggi la cosiddetta slatentizzazione, spesso avviene a causa dell’uso di sostanze varie.
Per concludere il discorso sull’attività con la psichiatra, accennerei alla discussione sulle allucinazioni, ovvero disturbi della percezione. Queste allucinazioni, comunemente collegate alla schizofrenia, sono in realtà esperienze che tutti noi facciamo in stati di semi-coscienza, ciò che cambia da un malato a “noi” è la capacità di critica. Un paziente crede fermamente in quello che vede, che diventa la sua realtà; in sintesi l’unica differenza tra “noi” e “loro” è che riusciamo a fare finta di niente, mentre loro hanno una sensibilità particolare.
A questo punto mi domando quando ancora possiamo progredire con la sensibilizzazione alla cura della salute mentale; anche se abbiamo fatto passi avanti dalla chiusura dei manicomi e dagli anni ‘90, in cui la prescrizione degli psicofarmaci non era del tutto controllata, lo stigma nei confronti di una persona che chiede aiuto è ancora altissimo. Anche le istituzioni del settore in Italia non sono così efficienti come si pensa. Prima di tutto le opzioni non sono molte, a causa del costo elevato di uno psicologo o psichiatra e le opzioni gratuite offerte dal’ASL sono spesso superficiali; non avendo il tempo di visitare tutti, talvolta traggono la diagnosi da un test a crocette e, a seconda del risultato, decidono se sei “abbastanza malato”, il che è paradossale.
Spesso ci scordiamo che non siamo veramente in salute quando trascuriamo la nostra salute mentale, che non si dovrebbe avere vergogna a chiedere aiuto e che tutti, in fondo, siamo un po’ folli.