“SIAMO IL GRIDO FEROCE DI QUELLE DONNE CHE PIU’ NON HANNO VOCE”

di Giuditta Formentini

Il 25 novembre, la nostra scuola è stata teatro di un flash mob organizzato dagli studenti per celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. 

L’evento è iniziato con la lettura di un passaggio tratto dal libro “Oliva Denaro” di Viola Ardone, scelto per raccontare la brutalità della violenza sulle donne e il desiderio di essere libere. Una storia di sofferenza e dolore, nella quale la giovane e studiosa Oliva si trova a dover affrontare il destino crudele di sposare il suo stesso stupratore, in una arcaica Sicilia degli anni ’60. Dopo la lettura, un coro si è sollevato: le voci delle studentesse e degli studenti hanno reso ogni parola un grido “altissimo e feroce” contro l’indifferenza, ricordando a tutti che ognuno, nel suo piccolo, può fare la differenza.

Il flash mob non era solo un modo per ricordare le vittime dei femminicidi, ma anche una reazione contro una delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara, che ha apertamente affermato  che “il patriarcato non esiste”. 

L’evento del 25 novembre ha lanciato un chiaro segnale: il Canossa non è indifferente di fronte alla violenza. Attraverso gesti semplici, ma significativi, il messaggio è stato forte e chiaro: non c’è e non ci sarà mai spazio per la violenza né a scuola, né nella società.

Di seguito, un passaggio del romanzo “Oliva denaro” di Viola Ardone letto durante il flash mob:

“Quando lui apre la porta mi trova accucciata in un angolo, i palmi delle mani graffiati per il tanto picchiare, le unghie scorticate. Non mi guarda, non parla, non sorride, mi solleva di peso e percorriamo cosí i pochi passi fino al letto, come una coppia di sposi novelli. Ho gli occhi pesanti, una stanchezza che parte dallo stomaco e si diffonde per tutte le membrae  gambe e braccia e piedi e mani e testa, ogni parte di me sprofonda nella molle arrendevolezza del materasso. Resto immobile e aspetto, come quando mia madre e Fortunata mi accompagnarono a bucare le orecchie alla vigilia della prima comunione. Non voglio, dissi, e mi ci portarono a forza.

Il suo corpo preme sul mio, lo scava come se ci si volesse ricavare una tana. Serro le palpebre, sospendo il respiro e mi ripeto le parole di mia madre mentre mi teneva la fronte in attesa dell’ago: non sentirai niente. Ma non fu cosí, e nemmeno stavolta lo è. Il dolore di allora si confonde con quello di adesso: il calore delle sue membra che gravano sulle mie e il gelo anestetizzante del ghiaccio sull’orecchio destro, l’odore pungente dell’alcol e quello del suo sudore, il turacciolo di sughero sistemato dietro il lobo e il cuscino che lui mi spinge dietro le reni per inarcarmi la schiena, le sue mani che mi stringono forte, come quelle di mia madre, l’ago di Nellina che punge la carne. Ma questa volta è impossibile urlare, girare la testa dall’altro lato e fuggire, non sono padrona di me, forse non lo sono mai stata. Le regole del corpo sono: non gesticolare, non ridere a bocca aperta, non stare alla finestra. Le ho imparate fin da piccina e le ho sempre seguite, eppure il mio corpo non lo conosco, è per me uno straniero, mentre lui sa cosa farne e cosí lo setaccia pezzo a pezzo per cavar ne fuori il suo piacere, e io lo perdo per sempre. Muta e buona, mi dico, muta e buona. Prima punge e poi passa. Invece l’ago spinge con forza e si fa strada lacerando e ferendo. Un lungo, acuto dolore mi spezza, non so dove tenermi per non andare in frantumi, cosí mi aggrappo a lui con tutta la forza che ho, perché lui è vivo e io invece sto morendo, sento il mio sangue sgorgare fuori da me, colare sulla pelle e finire sulla stoffa bianca. Poi tutti i sensi si spengono a uno a uno e non sento piú nulla.

Brava, diceva Fortunata davanti alla casa di Nellina, oggi diventi grande, ma io non lo volevo. Sono diventata donna a forza.

Quando apro gli occhi, tutto è finito. Paternò ha il fiato grosso, il volto bagnato di sudore e i riccioli scomposti. Si solleva sui gomiti senza guardarmi, poi si volta su un fianco, il suo corpo giace accanto al mio come quello di uno sposo appagato, e dopo qualche minuto sprofonda nel sonno. Quel corpo che fino a poco fa è stato paura, è stato peso, è stato violenza di muscoli forzati sui miei muscoli, è stato carne piantata nella mia carne, ora è silenzioso e indifferente, in lui non è avvenuto nessun cambiamento, nessuna ferita si è aperta. Riposa tranquillo, non ha paura di me, non teme che io possa fargli del male nell’incoscienza del sonno. Le gambe leggermente aperte, il petto che si solleva e si abbassa con flemma, ricoperto da una rada peluria scura, i piedi piccoli, quasi femminili, con il secondo dito piú lungo dell’alluce, le braccia muscolose, le dita delle mani tozze, le unghie rosicchiate, un neo largo come una lenticchia sulla clavicola sinistra.

Mi giace accanto con noncuranza, ora vanta dei diritti su di me, gli appartengo e anche lui mi apparterrà per sempre, che io lo voglia o no.

Con un sussulto improvviso il ritmo del respiro si spezza e lui si sveglia, senza rivolgermi uno sguardo si alza, cammina per la stanza in cerca dei panni, se li infila rapidamente. Cosí doveva andare, dice a mezza bocca, come se parlasse tra sé. Infine disserra la porta ed esce, lasciandola questa volta aperta.

Resto a fissare il soffitto e mi perdo negli arabeschi delle sue crepe, immobile come se la vita mi fosse stata sfilata da dentro le ossa. Mi sfioro l’addome con i polpastrelli ma non li sento piú miei, a toccarmi sono ancora le mani di un altro. Percorro ogni angolo della mia pelle alla ricerca di quello che è mutato per porvi rimedio, come dopo lo sfregio sul lobo, ma non c’è differenza tra il prima e il dopo, tutto sembra uguale, la frattura è dentro. Sono una brocca rotta.

Uno spasimo prima impercettibile e via via piú forte mi sale dalla bocca dello stomaco e si trasforma in nausea. Mi alzo a sedere e butto fuori un fiotto di liquido caldo. Cosí libero il corpo, ma il peso che ho dentro rimane.

Da piccina, quando ero malata entrava mia madre e la sua presenza bastava a consolarmi di ogni dolore. Lei ora non c’è, e non posso curarmi da sola. Dormi, diceva, dor- mi, ripeteva, dormi che passa. Ma il sonno è la cura degli innocenti, e per me non arriva. Cosí mi alzo e cammino fino alla toeletta, verso dell’acqua nel catino, con il sapone mi sfrego la pelle, una due tre dieci volte, il tanfo di vomito sparisce, l’odore di lui invece non viene mai via, si è fuso alla carne.

Le amiche di scuola dicevano che dopo restava la mac- chia. Che macchia, chiedevo, e loro ridevano con le guance tra le mani. Tiro su in fretta il copriletto per nascondere le tracce del mio corpo tradito.

Esco nel corridoio e la luce mi pizzica gli occhi anche se il cielo è grigio, un tuono rimbomba vicino e mi fa sobbalzare. Allora me ne torno nella stanza, come le galline di mio padre quando trovarono aperta la gabbia, e aspetto che arrivi qualcuno. Mi accosto alla toeletta, sollevo la rosa e dalla corolla spampanata cadono gli ultimi petali, come gocce rosse sul pavimento”.

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