Soldato

di Eva Dal Muto

Era notte fonda, ero piegato con la mitragliatrice sopra il parapetto fatto di sacchi di sabbia puntata nella “terra di nessuno” e con la testa sotto la barriera per ripararmi da eventuali spari.

Tenevo le orecchie ben aperte, pronto a sparare per il minimo rumore; non vedevo niente, solo una piccola luce fioca sotto di me proveniente da una candela. Accanto a me, su una panca di legno, giaceva un soldato con un taglio alla gamba che dormiva profondamente. Non volava una mosca, ogni tanto solo l’insistente squittio dei topi e lontani colpi di artiglieria. Ogni volta che respiravo sentivo odore di cadaveri, di organico e vomito altrui che riuscivo a sentire nonostante il forte raffreddore. Quel giorno avevo mangiato più del solito, perché un soldato del mio reparto era morto ed ero riuscito ad avere la sua porzione di pane insieme alla solita nauseabonda minestra fredda.

Avevo le dita e le labbra viola, non so perché, non faceva molto freddo o forse ormai ci ero abituato. Tutti lì dentro mi guardavano male, ogni volta che passavo, che mangiavo o che impugnavo il fucile, mi guardavano con quello sguardo di rimprovero e di incomprensione; inizialmente non capivo il motivo, ma dopo compresi che mi vedevano come un ragazzino di soli diciassette anni che aveva scelto di andare incontro alla morte, come a volerla sfidare. In realtà non sapevo perché avessi scelto di arruolarmi volontario, forse perché ormai tutti i miei amici erano andati e tutti parlavano di questa guerra; volevo aiutare la mia patria, ma non avevo ancora capito a cosa sarei andato incontro.

Stava per sorgere il sole; andai nel punto in cui si vedeva meglio e mi fermai ad ammirarlo mentre spuntava in mezzo a tutti i campi grigi, sporchi e pieni di cadaveri. Ogni mattina adoravo ammirare quello spettacolo, era la mia salvezza; quando sorgeva, tutto il terrore, la fame, il dolore e le condizioni in cui ero, svanivano, c’erano solo quei grandi e luminosi raggi arancioni che spuntavano e illuminavano tutto il campo quasi a volerlo ripulire con il suo calore da ogni male. Lo spettacolo mi ricordava molto la mia casa e la mia famiglia, la felicità di quando stavo con loro anche se non me ne accorgevo, perché lo davo per scontato, ma ora rimpiangevo ogni momento. Avevo mandato loro una sola lettera da quando ero arrivato e ancora non avevo ricevuto risposta, forse non l’avevano ricevuta o forse non erano riusciti a rispondermi, speravo tanto fosse arrivata.

Un fischio leggero ma acuto mi risvegliò dai pensieri e in un millesimo di secondo capii subito cosa stava accadendo. Non feci in tempo a scappare e in un attimo mi ritrovai disteso a terra con un forte rimbombo alla testa. Avevo la vista annebbiata e sentivo il sapore amaro del sangue in bocca, l’unica cosa che riuscii a scorgere era la sfumatura dei raggi del sole nel cielo, così sorrisi pensando alla mia infanzia e a mia mamma che mi sorrideva. Forse era destino, era già tutto scritto, ma non ero triste. Avevo lottato per la patria e per i miei fratelli più piccoli, per farli crescere in un paese che aveva vinto la guerra.

Sentivo la morte avvicinarsi con il suo respiro pesante tale da toglierti il fiato, la sua ascia tagliente tra le braccia. Sorrisi di nuovo, come a volerla sfidare, perché nessuno sarebbe riuscito a togliermi i ricordi di una vita felice. La vidi avvicinarsi e guardarmi impassibile, come se fosse stanca del suo lavoro e rassegnata al suo destino. All’improvviso la luce si spense e ancora con il sorriso stampato in faccia mi feci intrappolare da lei e dalla sua oscurità.

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